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0021

Le mascheredi Maimone


Riti agrari per la richiesta della pioggia rivolti a Dioniso
di Alberto Pisci

Si narra, con elementi non del tutto privi di fondamento, che nella seconda metà del '700 un gesuita di nome Giovanni Battista Vassallo avesse percorso il cuore barbaricino della Sardegna, con l'intento di estirpare quella semente pagana assai diffusa nell'isola, laddove la Chiesa non era riuscita nei secoli precedenti.

Tale Vassallo avrebbe osservato nell'isola, e descritto con orrore, quei riti apotropaici e cruenti per la fertilità rappresentati dalla popolazione locale, sempre incline a corroborare il sacro col profano…

A qualcosa di simile, opportunamente ripulita del cruento, si è potuto assistere Domenica 4 febbraio a Samugheo, nel cuore del Mandrolisai, il centro ortogonale della Sardegna, in occasione della più importante rassegna di maschere del Carnevale sardo, denominata “A Maimone”.

In questo luogo quasi sperduto di un’isola isolata, com’è stata la Sardegna per millenni (fino alla fine dell’Ottocento un'unica strada carrozzabile portava a Samugheo), le maschere tradizionali sono l’espressione di un arcaico mondo agropastorale. Esse ereditano e mimano quei riti agrari per la richiesta della pioggia rivolti a Dioniso “Mainoles”, il dio dell’estasi e della fertilità, il cui nome in Sardegna si è corrotto in “Maimone”. Questo nome è tipico delle maschere sarde ma lo troviamo anche collegato a numerosi toponimi che indicano ruscelli fonti e sorgenti. Dalla parola “Maimone” derivano le maschere dei “Mamutzones”, le più note del carnevale barbaricino.

Il mamutzone è una maschera muta, con pelli di capra sopra l'abito di fustagno nero. Legato alla vita possiede una cintura da cui pendono diverse file di campanacci di varie dimensioni. I pantaloni sono tenuti ben stretti da gambali e sulla testa porta un recipiente di sughero munito di corna “su casiddu”, interamente rivestito da peli di capra. Questo casiddu è detto anche “moju” dalla parola latina modius, adibito anche a contenere il latte e il grano.

I Mamutzones avanzano in gruppo in modo cadenzato, in apparenza simili a un gregge di capre, e ogni tanto mimano il combattimento in amore incornandosi fra loro. Poi, tenendosi per mano, improvvisano una danza in cerchio dopo aver posato per terra il copricapo. Si mascheravano in questa maniera coloro che si ritenevano posseduti da Dioniso e, andando in estasi, si lasciavano prendere da una temporanea follia.

0021a

I “Mamutzones” rappresentano in Sardegna il cuore del Carnevale (dal latino “carnem levare”, “togliere la carne”, in prospettiva quaresimale). In lingua sarda però, la parola ha una valenza più cruenta: si dice “Carrasecare” (“carra de secare” carne da fare a pezzi) che qualifica meglio l’arcano significato dei carnevali sardi, e la funzione apotropaica che avevano, un tempo, quelle maschere che ancora li incarnano. Sebbene sia andato perduto il significato originario, si tratta di rappresentazioni che presuppongono una vittima che anticamente andava sbranata. Un dio che muore, secondo il mito, per poter poi rinascere con la vegetazione.

Una figura tragica si agita in mezzo a loro, a rappresentare Dioniso che ogni anno muore e risorge come la vegetazione: è la maschera zoomorfa de "S'Urtzu", che indossa una intera pelle di capro nero, sovrastata dalla sua testa. Il capro era infatti la forma più frequente nella quale il dio si manifestava. "S'Urtzu", tenuto per la vita da "Su Omadore", il suo guardiano, ogni tanto cade a terra fingendo la passione che precede la sua morte.

La rappresentazione della sua passione, che in tempi lontani era una cerimonia sacra, in periodo cristiano venne bandita e declassata a semplice maschera carnevalesca. In questa forma è giunta fino al nostro secolo, anche se il suo significato primitivo si è in parte perduto.

Non manca nemmeno la valenza fallica di queste rappresentazioni dionisiache, espressa dal carro di “Santu Minchilleo”, il nome che in questo paese si dà ad un “buono a nulla”. Forse un tempo stava ad indicare colui che era destinato ad essere la vittima sacrificale. Il nome può essere una corruzione di “Minca e’ Leo” usato per esaltare il culto fallico (la parola Leo sembra essere uno dei tanti nomi di Dioniso).

Nel carnevale samughese di “A Maimone” si mescolano altre originali maschere auctotone sarde, come quelle dei Boes e Merdules di Ottana, o i Tumbarinos di Gavoi, così come quelle di altre nazioni ospiti (quest’anno la Spagna, la Croazia e l'Ungheria), in mezzo a migliaia di persone che assistono ogni anno al rito ancestrale della morte dell'inverno e della rinascita della natura, tra volti coperti di fuliggine, pelli di pecora bianca, campanacci e campanelle, tamburi e pifferi che suonano all’impazzata..

Qui si esprime la memoria collettiva di un paese desideroso di trasmettere questo patrimonio culturale. Forse non c'è paese in tutta la Sardegna ove certe tradizioni possono essere raccolte e studiate in modo così chiaro.

Viene da sorridere a pensare che quelle stesse "maschere" che avevano scandalizzato nel ‘700 quel gesuita Giovanbattista Vassallo che andava su e giù per la Sardegna per estirparle, ebbene, quelle stesse maschere, tutt'altro che scomparse, hanno conquistato un anno fa anche Piazza San Marco, ricevendo il saluto ammirato e festoso del Carnevale veneziano.









































E vengono in mente le parole di Grazia Deledda in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura il 10 dicembre 1929:



“Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”.

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Le mascheredi Maimone


Riti agrari per la richiesta della pioggia rivolti a Dioniso
di Alberto Pisci

Si narra, con elementi non del tutto privi di fondamento, che nella seconda metà del '700 un gesuita di nome Giovanni Battista Vassallo avesse percorso il cuore barbaricino della Sardegna, con l'intento di estirpare quella semente pagana assai diffusa nell'isola, laddove la Chiesa non era riuscita nei secoli precedenti.

Tale Vassallo avrebbe osservato nell'isola, e descritto con orrore, quei riti apotropaici e cruenti per la fertilità rappresentati dalla popolazione locale, sempre incline a corroborare il sacro col profano…

A qualcosa di simile, opportunamente ripulita del cruento, si è potuto assistere Domenica 4 febbraio a Samugheo, nel cuore del Mandrolisai, il centro ortogonale della Sardegna, in occasione della più importante rassegna di maschere del Carnevale sardo, denominata “A Maimone”.

In questo luogo quasi sperduto di un’isola isolata, com’è stata la Sardegna per millenni (fino alla fine dell’Ottocento un'unica strada carrozzabile portava a Samugheo), le maschere tradizionali sono l’espressione di un arcaico mondo agropastorale. Esse ereditano e mimano quei riti agrari per la richiesta della pioggia rivolti a Dioniso “Mainoles”, il dio dell’estasi e della fertilità, il cui nome in Sardegna si è corrotto in “Maimone”. Questo nome è tipico delle maschere sarde ma lo troviamo anche collegato a numerosi toponimi che indicano ruscelli fonti e sorgenti. Dalla parola “Maimone” derivano le maschere dei “Mamutzones”, le più note del carnevale barbaricino.

Il mamutzone è una maschera muta, con pelli di capra sopra l'abito di fustagno nero. Legato alla vita possiede una cintura da cui pendono diverse file di campanacci di varie dimensioni. I pantaloni sono tenuti ben stretti da gambali e sulla testa porta un recipiente di sughero munito di corna “su casiddu”, interamente rivestito da peli di capra. Questo casiddu è detto anche “moju” dalla parola latina modius, adibito anche a contenere il latte e il grano.

I Mamutzones avanzano in gruppo in modo cadenzato, in apparenza simili a un gregge di capre, e ogni tanto mimano il combattimento in amore incornandosi fra loro. Poi, tenendosi per mano, improvvisano una danza in cerchio dopo aver posato per terra il copricapo. Si mascheravano in questa maniera coloro che si ritenevano posseduti da Dioniso e, andando in estasi, si lasciavano prendere da una temporanea follia.

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I “Mamutzones” rappresentano in Sardegna il cuore del Carnevale (dal latino “carnem levare”, “togliere la carne”, in prospettiva quaresimale). In lingua sarda però, la parola ha una valenza più cruenta: si dice “Carrasecare” (“carra de secare” carne da fare a pezzi) che qualifica meglio l’arcano significato dei carnevali sardi, e la funzione apotropaica che avevano, un tempo, quelle maschere che ancora li incarnano. Sebbene sia andato perduto il significato originario, si tratta di rappresentazioni che presuppongono una vittima che anticamente andava sbranata. Un dio che muore, secondo il mito, per poter poi rinascere con la vegetazione.

Una figura tragica si agita in mezzo a loro, a rappresentare Dioniso che ogni anno muore e risorge come la vegetazione: è la maschera zoomorfa de "S'Urtzu", che indossa una intera pelle di capro nero, sovrastata dalla sua testa. Il capro era infatti la forma più frequente nella quale il dio si manifestava. "S'Urtzu", tenuto per la vita da "Su Omadore", il suo guardiano, ogni tanto cade a terra fingendo la passione che precede la sua morte.

La rappresentazione della sua passione, che in tempi lontani era una cerimonia sacra, in periodo cristiano venne bandita e declassata a semplice maschera carnevalesca. In questa forma è giunta fino al nostro secolo, anche se il suo significato primitivo si è in parte perduto.

Non manca nemmeno la valenza fallica di queste rappresentazioni dionisiache, espressa dal carro di “Santu Minchilleo”, il nome che in questo paese si dà ad un “buono a nulla”. Forse un tempo stava ad indicare colui che era destinato ad essere la vittima sacrificale. Il nome può essere una corruzione di “Minca e’ Leo” usato per esaltare il culto fallico (la parola Leo sembra essere uno dei tanti nomi di Dioniso).

Nel carnevale samughese di “A Maimone” si mescolano altre originali maschere auctotone sarde, come quelle dei Boes e Merdules di Ottana, o i Tumbarinos di Gavoi, così come quelle di altre nazioni ospiti (quest’anno la Spagna, la Croazia e l'Ungheria), in mezzo a migliaia di persone che assistono ogni anno al rito ancestrale della morte dell'inverno e della rinascita della natura, tra volti coperti di fuliggine, pelli di pecora bianca, campanacci e campanelle, tamburi e pifferi che suonano all’impazzata..

Qui si esprime la memoria collettiva di un paese desideroso di trasmettere questo patrimonio culturale. Forse non c'è paese in tutta la Sardegna ove certe tradizioni possono essere raccolte e studiate in modo così chiaro.

Viene da sorridere a pensare che quelle stesse "maschere" che avevano scandalizzato nel ‘700 quel gesuita Giovanbattista Vassallo che andava su e giù per la Sardegna per estirparle, ebbene, quelle stesse maschere, tutt'altro che scomparse, hanno conquistato un anno fa anche Piazza San Marco, ricevendo il saluto ammirato e festoso del Carnevale veneziano.









































E vengono in mente le parole di Grazia Deledda in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura il 10 dicembre 1929:



“Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”.

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Le mascheredi Maimone


Riti agrari per la richiesta della pioggia rivolti a Dioniso
di Alberto Pisci

Si narra, con elementi non del tutto privi di fondamento, che nella seconda metà del '700 un gesuita di nome Giovanni Battista Vassallo avesse percorso il cuore barbaricino della Sardegna, con l'intento di estirpare quella semente pagana assai diffusa nell'isola, laddove la Chiesa non era riuscita nei secoli precedenti.

Tale Vassallo avrebbe osservato nell'isola, e descritto con orrore, quei riti apotropaici e cruenti per la fertilità rappresentati dalla popolazione locale, sempre incline a corroborare il sacro col profano…

A qualcosa di simile, opportunamente ripulita del cruento, si è potuto assistere Domenica 4 febbraio a Samugheo, nel cuore del Mandrolisai, il centro ortogonale della Sardegna, in occasione della più importante rassegna di maschere del Carnevale sardo, denominata “A Maimone”.

In questo luogo quasi sperduto di un’isola isolata, com’è stata la Sardegna per millenni (fino alla fine dell’Ottocento un'unica strada carrozzabile portava a Samugheo), le maschere tradizionali sono l’espressione di un arcaico mondo agropastorale. Esse ereditano e mimano quei riti agrari per la richiesta della pioggia rivolti a Dioniso “Mainoles”, il dio dell’estasi e della fertilità, il cui nome in Sardegna si è corrotto in “Maimone”. Questo nome è tipico delle maschere sarde ma lo troviamo anche collegato a numerosi toponimi che indicano ruscelli fonti e sorgenti. Dalla parola “Maimone” derivano le maschere dei “Mamutzones”, le più note del carnevale barbaricino.

Il mamutzone è una maschera muta, con pelli di capra sopra l'abito di fustagno nero. Legato alla vita possiede una cintura da cui pendono diverse file di campanacci di varie dimensioni. I pantaloni sono tenuti ben stretti da gambali e sulla testa porta un recipiente di sughero munito di corna “su casiddu”, interamente rivestito da peli di capra. Questo casiddu è detto anche “moju” dalla parola latina modius, adibito anche a contenere il latte e il grano.

I Mamutzones avanzano in gruppo in modo cadenzato, in apparenza simili a un gregge di capre, e ogni tanto mimano il combattimento in amore incornandosi fra loro. Poi, tenendosi per mano, improvvisano una danza in cerchio dopo aver posato per terra il copricapo. Si mascheravano in questa maniera coloro che si ritenevano posseduti da Dioniso e, andando in estasi, si lasciavano prendere da una temporanea follia.

0021a

I “Mamutzones” rappresentano in Sardegna il cuore del Carnevale (dal latino “carnem levare”, “togliere la carne”, in prospettiva quaresimale). In lingua sarda però, la parola ha una valenza più cruenta: si dice “Carrasecare” (“carra de secare” carne da fare a pezzi) che qualifica meglio l’arcano significato dei carnevali sardi, e la funzione apotropaica che avevano, un tempo, quelle maschere che ancora li incarnano. Sebbene sia andato perduto il significato originario, si tratta di rappresentazioni che presuppongono una vittima che anticamente andava sbranata. Un dio che muore, secondo il mito, per poter poi rinascere con la vegetazione.

Una figura tragica si agita in mezzo a loro, a rappresentare Dioniso che ogni anno muore e risorge come la vegetazione: è la maschera zoomorfa de "S'Urtzu", che indossa una intera pelle di capro nero, sovrastata dalla sua testa. Il capro era infatti la forma più frequente nella quale il dio si manifestava. "S'Urtzu", tenuto per la vita da "Su Omadore", il suo guardiano, ogni tanto cade a terra fingendo la passione che precede la sua morte.

La rappresentazione della sua passione, che in tempi lontani era una cerimonia sacra, in periodo cristiano venne bandita e declassata a semplice maschera carnevalesca. In questa forma è giunta fino al nostro secolo, anche se il suo significato primitivo si è in parte perduto.

Non manca nemmeno la valenza fallica di queste rappresentazioni dionisiache, espressa dal carro di “Santu Minchilleo”, il nome che in questo paese si dà ad un “buono a nulla”. Forse un tempo stava ad indicare colui che era destinato ad essere la vittima sacrificale. Il nome può essere una corruzione di “Minca e’ Leo” usato per esaltare il culto fallico (la parola Leo sembra essere uno dei tanti nomi di Dioniso).

Nel carnevale samughese di “A Maimone” si mescolano altre originali maschere auctotone sarde, come quelle dei Boes e Merdules di Ottana, o i Tumbarinos di Gavoi, così come quelle di altre nazioni ospiti (quest’anno la Spagna, la Croazia e l'Ungheria), in mezzo a migliaia di persone che assistono ogni anno al rito ancestrale della morte dell'inverno e della rinascita della natura, tra volti coperti di fuliggine, pelli di pecora bianca, campanacci e campanelle, tamburi e pifferi che suonano all’impazzata..

Qui si esprime la memoria collettiva di un paese desideroso di trasmettere questo patrimonio culturale. Forse non c'è paese in tutta la Sardegna ove certe tradizioni possono essere raccolte e studiate in modo così chiaro.

Viene da sorridere a pensare che quelle stesse "maschere" che avevano scandalizzato nel ‘700 quel gesuita Giovanbattista Vassallo che andava su e giù per la Sardegna per estirparle, ebbene, quelle stesse maschere, tutt'altro che scomparse, hanno conquistato un anno fa anche Piazza San Marco, ricevendo il saluto ammirato e festoso del Carnevale veneziano.









































E vengono in mente le parole di Grazia Deledda in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura il 10 dicembre 1929:



“Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”.

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